Citiamo per intero un approfondito articolo di Giancarlo Toràn che riguarda un argomento più volte sperimentato in palestra:

Sin dai primi trattati di scherma gli autori hanno affrontato la questione: dove è opportuno guardare, durante un duello?

Le opinioni sono molto diverse: c’è chi suggerisce di guardare la punta della spada, chi la mano che regge l’arma, chi, come il Marcelli (1686)

“… in faccia, e ne gl’occhi; perché questi avendo corrispondenza con l’interno, sono spie del cuore.”

Pochi anni prima del Marcelli, nel suo Gorin No Sho (Il libro dei cinque anelli, 1645), il celebre Miyamoto Musashi dice qualcosa di simile, e qualcosa di più:

“….non basta soltanto saper guardare, bisogna saper percepire e intuire. Percepire è più importante di vedere…. si debbono vedere le cose distanti come se fossero vicine e quelle vicine come se fossero distanti. È indispensabile saper individuare la tattica seguita dal nostro avversario nell’uso della spada, senza lasciarsi distrarre dai movimen¬ti insignificanti della lama…. Bisogna saper vedere da entrambi i lati senza muovere le pupille… Ma quando si fissano gli occhi su un punto solo si perde la visione d’insieme e ci si disorienta… Conoscendo la via dell’Hejo si valuta, anche senza guardare, la distanza e la velocità del rivale e si scruta nel suo cuore.”

Ma ‘scrutare nel cuore’ non è precisamente un esempio del linguaggio concreto che oggi le scienze cognitive ci hanno abituato ad apprezzare. Dobbiamo tradurre le nostre intuizioni in qualcosa di più facilmente maneggiabile, comprensibile, e possibilmente misurabile.

Prima di continuare, però, devo precisare una cosa: sono un professionista nel campo della scherma, ma in quello delle scienze cognitive, malgrado una discreta formazione scientifica, sono pur sempre un dilettante.
Perdonate, perciò, le inevitabili approssimazioni nel comunicarvi le mie idee ed intuizioni sull’argomento: ed anche alcune semplificazioni, che potremo meglio spiegare, se necessario, quando ne discuteremo.

Il mio primo riferimento è l’esperienza: con me stesso, e con gli allievi su cui ho lavorato e lavoro.
Posso fissare negli occhi un interlocutore alla mia sinistra, mentre gli parlo, e mentre qualcun altro, alla mia destra, tenta di prendere, con un rapido movimento, il guanto che ho fra le dita: riesco a toglierlo altrettanto bene, e forse meglio, che se guardassi direttamente l’altra persona, purché non sia completamente fuori dal mio campo visivo.
Spiego questo fatto con la maggiore specializzazione della parte periferica della retina per il movimento.
L’ho verificato in molti modi.
Tra i più convincenti, quello della frequenza di fusione retinica (FFR).
La FFR variava, cioè aumentava, nel corso della gara, come se fosse correlato con una maggior attivazione cerebrale.
Costruii perciò un apparecchio, che ho ancora, in grado di fare la stessa cosa, e scoprii, per incominciare, che la FFR è diversa per diversi colori.
Il fatto più interessante è che la stessa FFR varia guardando i led con la coda dell’occhio: in questo modo mi accorgevo ancora dello sfarfallio delle luci (e dello schermo dei vecchi televisori) che, viste di fronte, mi apparivano fisse.

Ma torniamo all’attenzione.
Siamo in grado di essere attenti ad un punto nello spazio anche se guardiamo altrove: questo si chiama attenzione coperta.
Non è una cosa facilissima: il sistema visivo è fortemente dominante, per le sue connessioni multiple con moltissime zone del cervello.
Sappiamo che possiamo essere attenti ad altre sensazioni, anche chiudendo gli occhi.
Ma se li apriamo, e ancor più se fissiamo qualcosa, la nostra attenzione tende ad essere catturata da ciò che vediamo.
Possiamo allenarci a controllare anche questo aspetto dell’attenzione: ma perché questo dovrebbe rappresentare un vantaggio?

La spiegazione che ho trovato, e che oggi mi pare la più convincente, parte un po’ da lontano.

Per tanto tempo sono stato abituato a pensare che fosse sempre utile accumulare informazioni: più se ne hanno, meglio si può decidere cosa fare.
Ma non è sempre vero.

Nella scherma, come in tanti altri campi della vita, il fattore tempo è decisivo.
Non basta decidere: bisogna farlo in fretta, molto in fretta, e bene.
Bisogna scegliere fra le informazioni, eliminando rapidamente quelle poco utili. Più se ne trattengono, più aumenta il costo, in termini di tempo, dell’elaborazione: ed aumenta in modo esponenziale.
A quanto pare, il nostro cervello lo sa benissimo, da sempre. Ed è bravissimo a cancellare, già in fase preliminare, le informazioni inutili. Ne volete qualche esempio?

Provate a fissare, in rapida successione, vari punti della vostra stanza. Il mondo resta fermo, anche se l’occhio è in movimento.
Se, invece, fissate lo schermo di una telecamera in funzione, mentre la dirigete, con la stessa velocità, verso gli stessi punti, tutto vi apparirà in movimento, impedendovi di distinguere i particolari.
L’occhio, che si muove a scatti (saccadi), “vede” solo quando la fissazione è avvenuta: il resto viene cancellato. Pare difficile da credere, ma è così: non sono io ad affermarlo.
La visione fine è limitata ad una parte molto piccola della retina, la fovea.
La retina è una sottile membrana nervosa in cui si trovano, tra l’altro, i fotorecettori.
Incredibilmente complessa, connessa al cervello tramite il nervo ottico, è in grado di svolgere elaborazioni preliminari sugli stimoli visivi, inviando il risultato al cervello, attraverso vie più lente, o più veloci, secondo la minore o maggiore rilevanza biologica del risultato: in altri termini, se l’informazione è significativa in rapporto alle nostre possibilità immediate di sopravvivenza, segue delle vie preferenziali più rapide, e si collega ai circuiti emozionali.
La distanza da noi di un possibile nemico, o predatore, ne è un esempio. Credo proprio che il senso della distanza (della misura) segua questa strada, e salti i percorsi di valutazione più lenti.
Non occorre essere studiosi di prossemica per “sentire” disagio se il nostro interlocutore si avvicina oltre un certo limite.
Sappiamo, inoltre, che questo “senso” modifica le sue valutazioni se usiamo, o se l’altro usa, uno strumento (la spada, ad esempio): che diventa un nostro o suo prolungamento.

Ma torniamo all’occhio, e alla visione.
La via parvocellulare (la via lenta) dei sistemi visivi, responsabile della visione di forme fini-colori, riceve input praticamente solo dai coni, che si addensano in gran numero nella fovea.
Meno numerosi, ma diffusi in una zona molto più ampia della retina, serviti da un minor numero di fibre nervose, ma più grandi e veloci, sono i bastoncelli, responsabili della percezione del movimento, attraverso la via magnocellulare (la via veloce).

I rapidi, piccoli e frequenti movimenti degli occhi, detti saccadici, spostano l’occhio (e quindi la fovea) su vari punti di fissazione in tempi successivi, dandoci un’apparente visione d’insieme; e dandoci anche certe curiose illusioni ottiche, come quelle così ben sfruttate da Escher nei suoi disegni.

Fissare un punto preciso, quindi (ponendovi attenzione: e tutti gli studenti sanno che si può fissare un punto sulla pagina, ed essere altrove con la mente), significa attivare molte fibre nervose, che provengono dalla fovea; e anche sovraccaricare il sistema elaborativo con una notevole quantità di informazioni, e di ogni tipo. In queste condizioni, prendere una decisione che si trasformi in atto motorio richiede tempo: troppo, per la scherma.

“Ma quando si fissano gli occhi su un punto solo si perde la visione d’insieme e ci si disorienta”

diceva Musashi.
Potremmo forse tradurre così: quando si fissa un punto, il nostro sistema elaborativo, che ha capacità limitate, non ha risorse sufficienti per fare rapidamente anche altre cose, come occuparsi anche del controllo della distanza.

Cosa guardare, dunque? Tutto, e nulla: lo sguardo va rapidamente dappertutto, ma non si fissa su nulla. Va prevalentemente al centro, verso il petto, ma non fissa né la mano, né l’arma, né gli occhi. Li vede, ma non li fissa. Direi: non tenta di metterli a fuoco. Ma non basta.

Il senso della misura, come sempre hanno sostenuto i Maestri, è il presupposto più importante per la buona riuscita di un’azione schermistica.
La misura, però, non è una cosa statica, né misurabile col metro: è la capacità di prevedere la portata dell’azione, nostra e dell’avversario insieme, in una situazione dinamica.
Quando io mi muoverò verso di lui, starà fermo, avanzerà o arretrerà? E con quale velocità?
La misura, quindi, è determinata anche dal ritmo di un’azione: un ritmo che coinvolge entrambi gli schermitori, in un dialogo, un balletto, che si chiama, quando si arriva allo scambio dei colpi, la “frase” schermistica.
Chiaro riferimento al linguaggio, alla comunicazione.

Anche il dialogo muto fra gli schermitori in pedana obbedisce alle regole generali della comunicazione.
Anche in questo caso, per capirsi, e ritrovarsi all’appuntamento col ferro, o col bersaglio, bisogna prima accordarsi, entrare in sintonia, muoversi “insieme”: solo dopo si può tentare di rompere con successo la sintonia, e piazzare il colpo vincente.
Oppure, resistere al tentativo dell’avversario, e mantenere il controllo, la sintonia, fino in fondo, ad esempio per parare e rispondere.

Si può allora completare il suggerimento: non fissare nulla, pur vedendo tutto; e cercare, inizialmente, il sincronismo con l’avversario.
Per spiegare come, prendo in prestito dalla PNL (Programmazione Neuro Linguistica) la tecnica del ricalco, che si ha rispecchiando, imitando, l’interlocutore. Nel nostro caso, adattandosi ai suoi ritmi: velocità, postura, direzione.

Ho chiesto ad un bravo allievo come si trovasse, con questo sistema, che adotta da un po’ di tempo.
Mi ha risposto:

“Benissimo, e a volte mi riescono in questo modo perfettamente anche azioni istintive, non meditate, perché sento perfettamente la misura. Poi, quando sono molto stanco, e le cose non funzionano più, mi accorgo che sono tornato a fissare determinati punti, come facevo prima.”

Come allenarsi a far bene tutto questo? La parte più facile, che già troviamo negli esercizi convenzionali sulla misura, è quella del ricalco: seguire i movimenti dell’altro, fino ad assimilarne il ritmo.
Per migliorare, occorre addestrarsi ad individuare le caratteristiche dell’avversario (parlarne col maestro o con i compagni è molto utile) e imparare a portare all’esterno il focus attentivo.

Bisogna focalizzarsi completamente sull’avversario e sui suoi movimenti: muoversi come lui, sentire come lui, divenire lui.
Occorre una concentrazione vigile ma rilassata: fare con intensità quello che si sta facendo, e solo quello.
Sii qui ed ora, dicono i Maestri orientali: un allenamento che si può fare con profitto in ogni momento della giornata, anche fuori dalla sala di scherma.

La parte più difficile è quella relativa al modo di vedere.
Prima, per sganciare l’allievo dalla necessità di guardare, gli si fanno eseguire vari esercizi ad occhi chiusi: per esempio, tutte le parate di ceduta seguite da risposta, contro il destro o il mancino, sui fili o dopo i trasporti.
Poi, di nuovo ad occhi aperti, per portare gradualmente l’allievo a fidarsi del suo senso della distanza, e della sua visione periferica, ci si assicura che tiri i suoi colpi senza fissare il bersaglio o la mano armata dell’avversario: guardando il Maestro negli occhi, o guardando la sua mano non armata che si sposta di qua e di là; a volte addirittura impegnandolo, durante una serie di colpi, in una conversazione.

Dopo qualche perplessità iniziale, le cose cominciano a funzionare, e la precisione non ne soffre più di tanto.
Poi, acquisita la necessaria fiducia, si prova contro l’avversario, sempre sotto l’occhio vigile del Maestro. Quando il miglioramento diviene evidente, il nuovo comportamento tende a diventare stabile.